Dicono di GZ

23.3.10

Il lunedì di Calimero

Il giorno era entrato in casa sulle note di un elettrocardiogramma: piripipì – piripipì, e questo fu molto bello. La sera prima (la notte, secondo il calendario della casa) si era spenta in un collage di caccole intitolato ‘Report’, l’unica liberazione dell’animo afflitto sulla soglia della settimana – però Milena, il nuovo personaggio di Tornatore, bella ma senza il pallino del pizzo, vinceva su tutti.

Rantolando di fame per il buio, con gli occhietti a carciofo, Calimero si ricordò che in casa non c’era più nulla di edule, salvo Bastoncini Frittus, zucca andata a male e la gatta del vicino. Ma soprattutto mancavano i cereali, e quindi aveva già programmato la sortita antelucana per quadrare l’ora del sudore con una grassoccia colazione fuori.
Dunque cosa fece? Accese i molti e utili computer di casa, controllò la posta (c’erano solo messaggi di Morfeo, a quell’ora, tutti sul tono «Allunga la tua proboscide» – “Dumbo” era il nomignolo che Morfeo gli aveva dato) e si precipitò sotto una costosissima doccia scialba, tutto di fretta «perché ho fame e devo arrivare in biblioteca entro le 9, e – soggiunse – passando prima dalla banca». «BWAHAHAHA» risuonò intenso nelle mura di casa, ma ritenne Calimero per lunga esperienza che dovesse trattarsi ancora delle sceme due piani oltre, o di una puntata di Lupin. Procedette con i vari unguenti che lo avevano reso il calimero più bello di Merdia, con i profumi, gli orpelli vari del suo belletto quotidiano, e inforcate le scarpe se ne andò per la porta. Ma qualcosa era rimasto lì, qualcosa di arcaico, che dal recesso primigenio dell’intimità domestica avrebbe gridato vendetta, la maledizione del Tempo contro l’ardimentosa Fretta.
Serrò i chiavistelli, evitò di uccidere l’edule gatta e, zaino in spalla e ombrello alla mano, misurò a grandi passi la strada che lo separava e dalla leggera crema gialla di Dolce Merdia, e dalla banca, e dal librame escrementizio in cui si era scavato una piccola fossetta da diporto. E giunto che fu a mezza via, perseguendo fino in fondo il ruolo fantozziano che si era procacciato tramite un’agenzia di clisteri, gridò un «NOOOOO» che atterrì la povera madre, che lo aveva chiamato per informarlo graziosamente che il suo ombrello sarebbe stato inutile lì dov’era lei, «perché c’è un sole bellissimo – anche lì, no?». «No ti ho detto che ho l’ombrello in mano». «Occhei, però che tempo fa? Bello, giusto? Infatti qui è bello».
Che fare a questo punto? si chiedeva Calimero – grecismo per “Buongiorno”, appunto tra virgolette – in preda a un’esibizione canina? Fame, fretta, banca, sfiga insomma, flipperavano nel suo corpo come servizi segreti deviati, minando ogni certezza che il buonsenso aveva riposto nella nuova alba del dolore. «Ma il portafoglio!». «Ma non c’è un tuo amico che puoi chiamare, così ti fai prestare i soldi?». L’ovvietà della N e della O fu doppiata dal piedino isterico, e già Calimero batteva come un gobbo fuggiasco la strada, carico dell’usuale zainetto chirurgico. E già rivedeva i lidi noti, le sponde così familiari che sembravano appena trascorse, un déja-vu antico col retrogusto di cassonetto, e finalmente il tugurietto si stagliava nell’orizzonte pigmeo che sempre occupava.
Diede una girata alla ruota della fortuna (rovinando miseramente su “Perdi tutto, ma restiamo amici, così ti sfrutto”), un’altra alle chiavi e rientrò in casa. «Eccoti, mio amico portafoglio»; sventando così l’ennesimo fallimento del capitalismo, richiuse poi la porta, serrando i denti come un pirata e precipitandosi verso la colazione – nel trambusto si era persa la mappa per la banca, che quindi fu depennata dal mondo, per quel giorno di capitalismi assassini.
La veneziana si era aperta in un luminoso tripudio di crema, la più buona senz’altro a Merdia, ma un po’ in tutto l’orbe. I granellini di zucchero festeggiavano come un codazzo di stelle quest’unica serenità del firmamento; appena uscito da lì, un codazzo di stille stava accompagnando in bagno il cielo decrepito che «no, mamma, non è bello».
Giunse infine il nostro Calimero nella voragine senza timone, il piccolo dominio di un tappo e dell’untuoso spumantino che era esondato e si era rappreso negli angoli meno intaccabili di quel Canton Ricino della sapienza. Firmò la tabella della cartella clinica, come ogni altro essere capitato di lì per caso in un accesso di suicidio, e si diresse verso l’unico punto di tutto il carrozzone in cui – glielo rivelavano mesi di retiomanzia – la connessione c’era, funzionava e non dirottava sul selciato bianco e insanguinato dell’«Errore 404», il biplano della disperazione.
Trovò una bella seggiola nuova, con il cuscinetto nero e il sedile ricamato di vuoti, un fregio di coriandoli per portare il carnevale in clinica. Si sedette – la scrivania era troppo alta, ma non volle considerare anche questa prova, perché «se non altro mi sono seduto in un posto dove internet funziona». Errore, questo di Calimero, se non il 404, comunque uno con tutti i numeri per diventare la dimostrazione che un dio c’è, e porta jella, e probabilmente si chiama Gino.
«E ora? Il treno l’ha già bloccato quella zoccola della Cariènina, e lo IOR ha prenotato tutti i ponti; l’Arno poi faccio prima a berlo imbottigliato quando vado in mensa. Come faccio?». Le provò tutte per punirsi: il voto a Rifondazione, la corsa con i piedi in quattro scarponi tra cani incontinenti, il caffè al bar della stazione, l’attesa della Linea ad Alta Mobilità (nota come LAM-inchia), l’ascensore di Palazzo Ricci, il neo della Funghi, il fax del centralino, la Xerox, l’integrità morale, l’onestà intellettuale, il mutuo rateale, il concorso pubblico a spazzino – nein, kaput, niente di utile. Ma gli balenò in mente la ragione di tutto questo, la penuria di cibi da colazione, e solo una cosa restava intentata e morbosamente logica: il Carrefour.
Dunque, dopo quindici minuti di permanenza in clinica, Calimero si decise a mettere via quelle cose che con tanta fatica aveva recuperato da casa e tornare proprio lì, nella casa di risparmio che presto si sarebbe ancor più immiserita. Calimero si cambiò: posò sul canapè la gorgiera, la canottiera, il bikini, la giarrettiera, gli stivaletti rosa, i legacci, e ripose nello stipo le perle, gli smalti e il clistere d’oro che gli aveva regalato la regina di Cipro. Certi teppisti avrebbero trovato da poetare in questa metamorfosi, che lo vide ricoprirsi di blugìnz, felpina sportiva ohyeah, e giubbottino leggerissimo contro l’umido che tutto attanagliava come se un’enorme cicogna avesse spruzzato una chiara d’uovo sul mondo, senza guscio.
Il tutto durò sì e no tre minuti. Il nanetto minatore imbracciò la vanga e si diresse verso l’uscio – ma si ritrovò davanti la vecchina del piano di sopra, l’ennesima trovata picaresca del destino. E quindi, rabbonendo il cinismo che pure contava in credito alla giornata, si concedette una buona azione caricandosi dei vari pacchetti e aspettando che la signora completasse le due rampe, per lei lunghissime, tra varie invocazioni ai santi e agli angeli per averle mandato questo aiuto. Che, fornita l’opera, si precipitò a recuperare le chiavi lasciate nella toppa per l’emergenza, e che – come apprese solo più tardi – aveva dimenticato di girare a custodia della casetta pigmea.
Insomma ripiombò in istrada a passo di marcia come i bimbi delle gite. Ricordava quell’antico (ri)cercatore che correva con lo zainetto lungo le strade, invisibili cuffie da walkman anni ’80 sulle orecchie stempiate, raccogliendo uccelli volanti con il retino per farfalle. Fece il ponticciuolo che lo teneva sospeso su un rigagnolo di liquami; ringraziò i molti, moltissimi anzi, automobilisti di Merdia che si fermavano alle strisce pedonali; salutò con affetto le vecchine di Merdia che corrono in vespa in mezzo al marciapiede (in quo pedes marcescunt, id est pedones in culum perducuntur); e giunse infine al Carrefour, diventato patrimonio demaniale dopo l’ultima visita di Hansel e Gretel.
«No mamma, devo chiudere perché ho il portafoglio, il telefono, l’euro per il carrello e ora il carrello, lo zaino da fare impacchettare e gli occhiali da sole nell’altra mano, e non posso vedere l’orologio». Spingendo il carrello che, poi gli rivelarono, era l’unico con la quarta ruota non funzionante, si avviò. All’ingresso, l’infallibile veggenza dell’omino che fa il bellissimo e gratificante lavoro di impacchettare zaini vuoti non poté che avvistare lui e lui soltanto, e Calimero con il solito molto buon garbo gli porse lo zainetto dicendo: «Grazie per avermi scelto fra tutti, buon uomo».
Cosa non comprare, una volta che hai tutto lì? Tra le molte cose eduli che servivano, alcuni articoli si insinuavano senza troppi pregi nutrizionali: una scheda di memoria per la macchina fotografica, un apriscatole, quattro leggerissimi flaconi postatomici di detersivo in formato famiglia polinucleare, che da soli giustificavano la spesa finale, che fu di 3.000 dollari in taglio piccolo – ché altrimenti il capitalismo non gira.
Rinfrancato da questo sforzo, che contribuiva al suo dimagrimento insieme alla traversata con pezzi di Carrefour sotto le braccia («No mamma, ti richiamo fra un attimo». «No mamma, un altro attimo»), il nostro si diresse a casetta – come ricorderete, poiché qui il narratore è onnisciente, la porta era stata lasciata solo chiusa e non serrata, e la psiche solitamente molto clemente di Calimero cominciò anche in questo caso a suggerirgli diverse possibilità, contemplando ora l’avvento di qualcuno degli zigani che lui non aveva mai visto e contro cui però la vecchina di prima l’aveva messo in guardia, ora l’invasione dall’interno di qualche entità semiantropomorfa, semibeluina e darioargentesca. Poi giunse l’angioletto di Socrate a dirgli che forse era stata l’ennesima cazzata del giorno.
Depositò dunque tutto – «ma minchia che tardi! Alle 14 ho lezione, e sono le 12: cosa faccio per spicciarmi?» si chiedeva, riuscendo a spartire quattordici chili di spesa tra i pochi spazietti disponibili nel giro di 3 minuti. «Non vado in mensa – già aveva troppa cacca in curriculum, per quel giorno – e mi preparo una cosa veloce prima di andare a lezione». Cosa avreste fatto voi per preparare qualcosa di veloce? Spaghetti aglio e olio, insalatina fresca e veloce, couscous primaverile, toh! anche un paninetto imbottito; poi un caffè e via. Ebbene Calimero aprì il frigo e vide la confezione di pancetta affumicata che aveva aperto la settimana prima. «Ma è troppo poca per la carbonara, uffi!» disse Calimero in un momento di adulta virilità. Ma cosa vide a quel punto? Un raspo di funghi protrudeva da un angolino in basso, la memoria della natura che, a differenza di tanti altri, non si scorda di crescere, e non si scorda di aver comprato cinque champignon enormi cinque giorni prima. L’improvvisa illuminazione soppresse (voce del vb. sopprendo, come insegnava un piacevole esattore avellinese di Trenitalia) ogni bisogno di correre. Mise a bollire l’acqua salata, un cucchiaio d’olio per saltare la pancetta; quando questa finì di saltare, fu il momento delle acrobazie dei funghi, un po’ come dei puffi drogati; il genio gli suggerì di diluire del concentrato di pomodoro in un fondo d’acqua, e spargerlo sull’intruglio; era stata breve la pioggerella profumata di pepe, sale e peperoncino che come acqua sull’asfalto ricordava la primavera col suo effluvio (a Calimero piaceva veramente, quell’odore per lui primaverile e di vita).
In verità ci mise sì e no 10 minuti a fare tutto, ma gli sembrava di avere perso ere intere – l’allucinazione olfattiva e quella spaziotemporale gli fecero ingurgitare quella prelibatezza (gli era riuscita alla perfezione, naturalmente) e, dopo un rapido caffè con annesso cioccolatino, si preparò per uscire. «BWAHAHAHA» ma stavolta era la sua consapevolezza, e per onestà intellettuale dichiarò subito alla sua amata Fretta che calzini e camicie sono troppo difficili a scegliersi, e che i venti minuti che avrebbe dovuto aspettare erano fisiologici – per quanto poi, come al solito, si rivelasse una perdita di tempo di fronte alla scelta degli abiti della sera prima, «così finisco di usarli».
Riuscì anche a fare i piatti («Minchia, si è bucato un guanto!») prima di finire di imbellettarsi e partire per la lezione con la foga di un ratto artigliato dal tempo, dove giunse appena in orario: «Meno male, ho lezione mezz’ora fa, c’è ancora tempo». In verità si era perso poco e capì che avrebbe fatto molto male a non fare come aveva fatto. Conclusa la lezione, era ora di andare a lezione; ma quel giorno ci sarebbe stato colui che pare dover diventare il futuro, e per non restare il passato fu d’uopo andare (sapeva bene che il giorno dopo si sarebbe rifiutato d’andare, come poi avvenne). La lezione fu insolitamente piacevole e qualche scambio di battute lasciò nel suo animo la speranza di poter evitare in futuro la sorte di un profilattico. In compenso rinunciò a ogni protezione per quella sera, visto che il manganello bluastro di cui si dotava per sconfiggere la pioggia restò invece dimenticato in bilico sullo stipite della porta dell’aula del futuro, e fu preso in ostaggio dalle molte ore di lezione (fino alle 22.30, caso questo del tutto eccezionale, solo per quella giornata piacevole) – il giorno dopo riuscì a riconquistarlo grazie ad alcuni bagarini.
Insomma, la sera si svolse veloce e, contro ogni vostra aspettativa, senza pioggia verso la conclusione. La notte andò benino, e la sveglia non fu terribile. Ma qualcosa di inquietante stendeva lunghe ombre a forma di caccola sulla nuova alba…

1 commenti:

n. ha detto...

geniaccio! §;*